16 dicembre 2015

LA TESSITURA NELL'AREA GRECANICA

L’Area Grecanica, è quell'area geografica del basso Jonio reggino, che definisce quel territorio dalle caratteristiche socio – linguistiche e culturali anticamente appartenute alla Magna Grecia, culla secolare di quella minoranza linguistica ellenofona di Calabria, dove ancora oggi in alcuni territori della stessa si parla il grecanico e definiti ellenofoni. L'isola ellenofona oggi comprende i comuni di Bova, Bova Marina, Condofuri, Roghudi e Roccaforte del Greco, nella vallata della fiumara dell'Amendolea; in quest’area, oltre la lingua, l’artigianato grecanico è l’espressione che caratterizza le comunità che vi risiedono e che si esprime nella cosiddetta “arte dei pastori”; un artigianato prodotto sempre in ruolo strettamente funzionale all'aspro territorio d’appartenenza degli artigiani e della vita quotidiana che si svolgeva in esso. Nell'arte dei pastori, dove si sfruttava quello che il territorio poteva offrire loro mettendo in pratica il sapere ereditato, di rilevante importanza era l’arte della tessitura, praticata dalle donne specialmente nelle giornate invernali quando non erano impegnate nei campi e durante il tempo libero, quando non dovevano accudire ai loro figli e svolgere le faccende domestiche, fino a sera inoltrata. I filati utilizzati per tessere erano di fibre di: lana, ricavata dalla tosatura del bestiame; e di ginestra utilizzata in sostituzione di fibre più pregiate come il lino e la canapa, che pur essendo ampiamente lavorate fino agli anni ‘50 del Novecento, erano considerate materie nobili che i più benestanti potevano permettersi. La ginestra invece che abbondava sul territorio aspromontano era alla portata di tutti, e garantiva la tessitura di capi da biancheria e d’abbigliamento. La produzione del filato di ginestra era eseguita dalle donne, ricordo ancora vari racconti di nonna Elisabetta, che nel greto della fiumara dell’Amendolea preparava le fibre per il suo filato di ginestra, da utilizzare nella tessitura delle coperte chiamate “Vutane” o delle “Pezzare”, per tappeti e per decorare le pareti interne della propria abitazione, al suo telaio a pedale.

Fig. 1 _ Disegno riproduzione di una tessitrice al telaio a pedale 


Fig. 2 _ Fotografia storica di tessitrici mentre lavorano
 Africo Antica _ Anno di scatto 1948 _ Autore Petrelli

Il filato di ginestra era utilizzato grezzo oppure tinto, la coloritura si praticava con l'utilizzo di terre o essenze naturali fino agli anni ’50 del Novecento; in seguito vi fu l’introduzione di coloranti sintetici che resero filati di coloriture più vivaci.  


Fig. 3 _ Da Sx a Dx: Fibra di ginestra grezza: mista a scorie legnose, cardata e filata

I tessuti che erano prodotti per le coperte: "Vutane"di solito si presentavano a forma di teli rettangolari cuciti a tre a tre, che in alcuni casi presentavano  rifiniture nei bordi con frange realizzate dello stesso filato con la tecnica della forcella o dell'uncinetto; oppure rifinite con fasce di raso.   


Fig. 4 _ Vutana di  filato di ginestra e lana prodotto nella Vallata dell'Amendolea,
con frangia di rifinitura a forcella, proprietà di Vincenza Triolo.
Tessuta al telaio a pedale dalla nonna Elisabetta Valastro a Condofuri (RC)

L’arte del tessere, che era tramandata da tenera età oralmente dalle madri, dalle nonne, dalle zie e in alcuni casi dalle amiche di famiglia, iniziava con piccole commissioni per poi evolversi nel trasmettere alle giovani tessitrici la conoscenza del telaio con il suo funzionamento e la conoscenza delle tecniche della tessitura stessa con la composizione delle trame. Le trame della tela erano caratterizzate da forme e disegni stilizzati, dal variegato abbinamento dei colori, vivaci e accostati senza sfumature, che nascevano da una sorta di cantilena, e che erano come uno scrigno che custodiva l’essenza spirituale della tessitrice con proprie conoscenze e credenze, un aspetto conservato tutt'oggi. Dal punto di vista del disegno le forme più comuni sono:

Fig. 5 _ Trama con schema Mattunàrico





Mattunàrico, si ottiene dall'incrocio di esagoni convergenti su rombi intervallati da rettangoli; dove la nota di lavorazione prevede una suddivisione in due file da eseguirsi in perfetta alternanza fino al completamento della tela.

Fig. 6 _ Trama con schema Cruciato


Cruciatu, costituito da mattonelle piatte separate verticalmente e orizzontalmente da bande diritte che formano ad alternanza delle croci; anche qui la lavorazione consiste nella suddivisione in due file da eseguirsi in perfetta alternanza fino al completamento della tela. 

Fig. 7 _ Trama con schema Cruciato

Rosatu, la trama si presenta come l’intreccio di rosette disposte in modo da formare una croce. Le forme stilizzate, ottenute con una lavorazione a due file eseguite alternativamente fino al termine della tessitura della tela, somigliano a eliche e dette popolarmente “rosi”, sono tessute senza interruzioni e rendono il disegno quasi ipnotico. 

Fig. 8 _ Trama con schema Telizio



Telizio, si ha una composizione costituita da piccoli rombi concentrici e affiancati con il risultato di una decorazione netta dove spicca la forma angolare; in questo caso si predilige la decorazione detta “archiviata” che si crea con uno o più colori. 

Fig. 9 _ Trama con schema Grecu

Grecu, il susseguirsi di segmenti e depressioni riproduce un motivo ornamentale lineare e classico. La lavorazione è composta da due file che si eseguono alternativamente fino al completamento della tela. Nella tessitura questo schema di disegno è la lavorazione più  comune e tradizionale, che grazie all'utilizzo di diversi colori di filato si presenta in varianti originali. 


Alcune trame di questi tessuti grecanici riproducevano decorazioni neolitiche, altre erano del tutto simili a quelli prodotti in Grecia e in generale di tutti quelli prodotti nei luoghi soggetti all'influenza bizantina. La rappresentazione dei disegni, sia nella geometria sia nella stilizzazione delle forme, denota un'interpretazione popolare di rappresentazioni chiave dell'ellenismo, con una sovrapposizione di segni religiosi e simboli della vita sociale. Altri tipi di tessuti prodotti al telaio erano di filati di lana, ottenuti da una lavorazione dopo previa tosatura del bestiame, che secondo la qualità si dividevano in due generi: il panno o lana rustica formato da una qualità di lana più forte e più ruvida, che a doppio strato serviva per gli abiti e i mantelli dei massari e contadini, che avevano bisogno di un vestito caldo e impermeabile all'acqua; e la franninella, un panno più leggero formato da una lana più fine, che serviva per i vestiti del ceto medio borghese perché più fine e più da comparsa; entrambi i tessuti erano utilizzati nei mesi invernali. Con l’introduzione della produzione del baco da seta, si realizzavano due qualità di tessuti: quelli di cascame ocapisciola e quelli di seta propriamente detti. Per formare i primi c'era bisogno che i bozzoli, dopo sfarfallati, fossero bolliti e poi sfilati, mentre i secondi erano filati senza ebollizione, cosicché ne usciva un filo di seta lucido che formava i tessuti più pregiati.(1)


NOTE:
(1) Da ricerche accompagnate dai ricordi della nonna materna Elisabetta Valastro e della  nonna paterna Vincenza Legato. Pubblicate anche in TRIOLO V., Il Quartiere Praci di Motta San Giovanni (RC). Storia, Architettura e Conservazione: linee guida per il recupero e il ripopolamento, Città di Castello (PG), GB Editoria, 2014, pp. 106 - 109. 
Fonti bibliografiche anche alla  pagina BIBLIOGRAFIA nel presente blog. 

Tutti i diritti sono riservati. nessuna parte di questo blog, che siano immagini o testi di ricerca studio e pubblicazioni, può essere riprodotta, utilizzata o trasmessa in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo tecnologico senza previa autorizzazione secondo le normative vigenti dell'autrice.
UN USO IMPROPRIO DEI DATI  E PUBBLICATI E' PERSEGUIBILE DALLA LEGGE 22 APRILE 1941, N. 633 (PROTEZIONE DEL DIRITTO D’AUTORE E DI ALTRI DIRITTI CONNESSI AL SUO ESERCIZIO) E SUCCESSIVE MODIFICHE E INTEGRAZIONI.


28 novembre 2015

INAUGURAZIONE DEL Museo della Civiltà Contadina dell'Area Grecanica di Bova Marina (RC) E PRESENTAZIONE DELLA GUIDA DI ARTEMIS

 MANI CHE LAVORANO
Percorsi nell'artigianato grecanico


Fig. 1 _ Convegno Inaugurazione del Museo della Civiltà Contadina dell'Area Grecanica
di Bova Marina e presentazione della guida edita Artemis:
"MANI CHE LAVORANO. Percorsi nell'artigianato grecanico" 


Il 28 Novembre 2015, si è svolta l'inaugurazione del Museo della Civiltà Contadina dell'Area Grecanica di Bova Marina, presso L'Istituto Ellenofono dello stesso comune. A finanziare il nuovo allestimento è stato l'Assessorato alle Minoranze Linguistiche della Provincia di Reggio Calabria che, grazie all'associazione culturale Fidia, ha portato a termine, dopo più di un anno di lavori e di ricerche, il progetto dal titolo: "Il restauro del Museo della Civiltà Contadina dell'Area Grecanica di Bova Marina". Le attività previste dal progetto sono state numerose ed hanno coinvolto la Soprintendenza alle Belle Arti e al Paesaggio della Calabria e gli Sportelli Linguistici della Provincia di Reggio Calabria.


Fig. 2 _ Visita sala espositiva con nuovo allestimento del
Museo della Civiltà Contadina dell'Area Grecanica di Bova Marina


Nel corso dell'inaugurazione, inoltre, è stata presentata la guida dal titolo: "MANI CHE LAVORANO. Percorsi nell'artigianato grecanico", edita da Artemis e curata dal dr. Pasquale Faenza Storico dell'Arte e Conservatore dei Beni Culturali, pertinente le realtà artigianali che oggi operano nel recupero della tradizione greco - calabra. Lo scopo della guida è quello di sfruttare un serbatoio culturale e turistico già acquisito; e di far conoscere, attraverso un viaggio nel territorio ionico meridionale calabrese, l'artigianato grecanico, attività che insieme alla musica, all'agricoltura e all'enogastronomia, perpetuano le antiche radici greche di una piccola minoranza linguistica conservatasi nel territorio provinciale di Reggio Calabria.

Fig. 3 _  guida:
 "MANI CHE LAVORANO. Percorsi nell'artigianato grecanico"

Nella guida un confronto tra i manufatti dell'artigianato grecanico del passato custoditi nei musei etnografici presenti nel territorio dell'Area Grecanica e l'odierna produzione, che si manifesta con continue sperimentazioni e ricerche, senza perdere il legame con il proprio passato storico greco - bizantino. Il testo è un veicolo per dare visibilità alla cultura grecanica, al territorio e a quanti valorizzano la sua identità attraverso la ricerca e il lavoro artigianale.

Fig. 4 _  guida:
 ISPIRAZIONI GRECANICHE
    Un Viaggio nelle grecità calabrese con gli artigiani della tradizione


Nelle guide pubblicate dall'Assessorato alle Minoranze Linguistiche della Provincia di Reggio Calabria:

1) MANI CHE LAVORANO. 
   Percorsi nell'artigianato grecanico

2) ISPIRAZIONI GRECANICHE. 
    Un Viaggio nelle grecità calabrese con gli artigiani della tradizione 

il testo, dal titolo: "I fili della storia", racconta della nostra realtà artigianale Fili Trame e Intrecci, frutto dell'incontro della cultura tessile mottese con quella della vallata dell'Amendolea. 
Il dr. Pasquale Faenza, dopo averci fatto visitata a Motta San Giovanni e raccolto dati con attenta criticità ha saputo cogliere  e descrivere tecniche artigianali antichissime che si tramandano ancora nella famiglia Triolo - Zindato, cogliendone anche l'essenza spirituale e familiare che si racchiude in ogni  prodotto artigianale realizzato.


Fig. 5 
 I fili della storia
Fili trame e intrecci realtà artigianale a Motta San Giovanni (RC)
della famiglia Triolo - Zindato




06 settembre 2015

LA PRODUZIONE DI FILATO DI SETA A MOTTA SAN GIOVANNI ENELL'AREA GRECANICA: LA RICERCA E I RACCONTI DI NONNA VINCENZA LEGATO

Ancora ricordo il fascino che lasciava in me il racconto di mia nonna paterna sulla bachicoltura, non mi stancavo mai da bambina ad ascoltarla innumerevoli volte, poi a un certo punto misi da parte quei ricordi per la troppa nostalgia delle nostre passeggiate pomeridiane per i campi a fare la raccolta di erbe spontanee, che lei m’insegnava a riconoscere per la preparazione d’infusi o di pietanze. Un giorno poi mentre facevo ricerca per la pubblicazione tornò un elenco che attestava la presenza di due artigiani setaioli nel feudo della Motta San Giovanni e così ripresi gli appunti dei ricordi e ripartì la ricerca. 

Fig. 1  Gelso o Morus L.
Dall'etimologia: il nome generico Morus viene dal latino mōrus
parola mediterranea attestata anche nel greco μόρον móron , arbusto da more. 


Il gelso (Morus L.) è un genere di pianta della famiglia delle Moracee, originario dell'Asia, ma anche diffuso in Africa e in Nord America; e comprende alberi o arbusti di taglia media. Le foglie sono caduche alterne di forma ovale o a base cordata con margine dentato. Le principali specie presenti sul territorio europeo sono: il Gelso Bianco (Morus alba) e il Gelso Nero (Morus nigra). In territorio calabrese un tempo vi erano molte piantagioni di Morus alba e Morus nigra, la loro esistenza era legata alla pratica della bachicoltura.

La bachicoltura o sericoltura ha origine antichissime in Cina databili circa al VII sec. a. C., in Europa e in Italia fu introdotta dai Bizantini e Saraceni, e in Calabria? Per quanto concerne le origini della bachicoltura in Calabria ci sono opinioni divergenti e alcune ipotesi non sono supportate da documentazione storica, tanto da rimanere solo tali. La bachicoltura in Calabria fu introdotta dai Bizantini lo attestano alcune fonti storiche certe, quali: un unico documento, un rogito notarile risalente al 1050, citato dallo storico e studioso francese Andrè Guillon, nel quale si legge, che fra i beni della Curia Metropolitana reggina, figura un campo di migliaia di gelsi; e la storia critica e cronologica del patrono di San Bruno e del suo Ordine, dove un diploma del 1089 indica i confini di un podere con una piantagione di gelsi; tale documentazione prova che l'industria serica in Calabria fosse più antica della venuta di Ruggero II e che il primo albero conosciuto è il Morus. Secondo altri studiosi non ci sarebbe neanche difficoltà a pensare che anche i Saraceni introdussero la pratica della bachicoltura in Calabria; infatti, è da pensare, che dove il loro dominio fu più duraturo, agissero nel senso di rimanervi e quindi si dedicarono all'agricoltura e alle attività collaterali, ma tale ipotesi non è supportata da documentazione. Con i Normanni la produzione di filato di seta e la tessitura serica, a cominciare da Ruggero II, iniziarono un processo di perfezionamento che già da qualche tempo era praticato in un ambito più ristretto e propriamente familiare; ciò è attestato da un'affermazione del Vescovo di Frisinga e dalla successiva politica economica adottata da Federico II di Svevia (1220 - 1250), che si adoperò a istituire grandi fiere nei centri più importanti in un determinato periodo dell'anno. Sul finire del XIII secolo, dopo la decadenza del setificio siciliano, avvenuta a metà dello stesso secolo, a causa dell'emigrazione dei musulmani, il setificio calabrese acquistò rilevanza incominciando a guadagnare i mercati italiani. Protettori ne furono gli Angioini ma lo sviluppo della produzione di seta fu ancora maggiore in epoca aragonese in tutta la regione. In questo periodo nella provincia di Reggio Calabria, un grande impulso alla seta fu dato dagli Ebrei, che avevano un ruolo importantissimo sia nella crescita economica in genere, per le loro competenze artigiane in altri settori, sia in particolare nello sviluppo della produzione, tintura e commercializzazione della seta, dove investivano ingenti capitali traendone forti guadagni, tanto che divennero una potenza economica; e ciò permise loro di possedere una condizione giuridica ed economica influente nella vita delle comunità dei luoghi dove erano presenti. 


Fig. 2 _ Immagine che ritrae una bottega medievale di stoffe di seta 


A Lione in Francia, nel 1400 è documentata la presenza del telaio di tale mastro setaiolo <<Giovanni il calabrese>> che divenne il primo caposcuola e fondatore di molte industrie seriche. L’arte della seta visse periodi di grande prosperità durante il regno di Carlo V che aveva istituito franchigie e privilegi vari. Nel 1450 vi era in Calabria e soprattutto a Catanzaro uno sfoggio diffuso di abiti di seta di lusso e nel 1492 erano esentate dal dazio sul commercio della seta: Tropea, Scilla, Bagnara, Fiumara di Muro e Reggio, tanto che Seminara ne richiedeva lo stesso diritto. In questo periodo i mercanti fiorentini esportavano seta da Squillace, Cosenza, Bagnara e Reggio; e in quest'ultimo distretto si produceva una qualità di seta famosa per la sua lucentezza, conosciuta con il nome si Sambatello, così detta perché era lavorata ai piedi della salita di Sambatello, località vicino a Gallico (RC). Ben presto la potenza acquisita dagli Ebrei nell'industria serica crollò, poiché furono accusati dai Genovesi e dai Lucchesi di monopolizzare il mercato, e nel 1511 un’ordinanza del re Ferdinando di Aragona, li costrinse ad abbandonare il nostro paese. Nel 1519 furono pubblicati gli Statuti dell’arte della seta di Catanzaro ma con l'estromissione degli Ebrei e dei loro capitali molte industrie ed attività commerciali cessarono di esistere, tanto che le fiere persero la loro animazione e cominciò nel settore economico calabrese crisi e decadenza, investendo soprattutto la produzione e la commercializzazione della seta. L’attività serica, continuo comunque in piccole realtà ed ebbe una buona ripresa negli anni seguenti con il massimo sviluppo nel Settecento, si producevano drappi, damaschi e broccati apprezzati in tutta Europa. Nel 1790, nel reggino a Villa S. Giovanni sorse la prima filanda, e più tardi ne sorsero altre; tanto che si registravano otto nel tratto tra Villa San Giovanni - Reggio Calabria e nel 1863 si contavano centoventi filande distribuite lungo la fascia Villa S. Giovanni - Roccella Ionica. Si tessevano sete damascate, velluti in seta e cotone a vari colori. Questa ricchezza durò ben poco: nel 1879 a Reggio funzionavano appena otto telai e a Scilla quattro, finché tra la fine del XIX e nei primi decenni del XX secolo si ebbe nel settore una lenta ma inesorabile decadenza che portò alla scomparsa dell'industria serica, favorita anche dalla maggiore richiesta nel mercato di stoffe di altri tessuti come il lino, la lana e il cotone. 


 Fig. 3 _ Tav. 01: produzione di seta calabrese _
Pagani L., Studi sulla Calabria, Vol II
 


Fig. 4 _ Tav. 02: seta calabrese _
Pagani L., 
Studi sulla Calabria, Vol II 


A Motta San Giovanni, nell'Area Grecanica, la mia terra natia per parte paterna, l'industria serica fu attiva sin da epoca bizantina e si verificarono gli avvenimenti storici fin qui descritti. Ricordando i racconti di mia nonna paterna Vincenza Legato nel territorio di Motta San Giovanni vi erano numerose piantagioni di gelso bianco e nero che incrementarono l'economia dell'intero territorio con la bachicoltura fino alla prima metà del Novecento; lei e alcune zie erano dedite all'allevamento del baco da seta da bambine fino a giovane età. La bachicoltura a Motta si praticò fino ai primi decenni del Novecento e i bozzoli erano raccolti in stabilimenti, dove avveniva la prima lavorazione, per poi il prodotto essere trasferito a Catanzaro, tra il rione Stavoli e Abenavoli, dove ancora oggi il luogo prende il nome di "La Filanda", e dove le antiche strutture architettoniche sono andate perdute, grazie a demolizioni e nuove costruzioni in c.a. nella seconda metà del Novecento. L’allevamento del baco da seta e la produzione dei bozzoli avevano carattere familiare: alcune allevatrici acquistavano le uova del baco e le tenevano al caldo aspettando che i bacolini venissero fuori dal guscio, iniziando così la loro breve esistenza; altre, invece, compravano direttamente i neonati di baco. L'allevamento era praticato nelle loro case, le tipiche case terranee dell'Area Grecanica a uno o due livelli, e le stanze adibite a questo scopo erano al piano terra con aperture supplementari sopra le porte o sotto le finestre stesse per garantire l'areazione. I piccoli bachi erano riposti nelle cosiddette "cannizze", graticci di canne intelaiate su cui a volte era riposta della tela e che si potevano sovrapporre, creando più piani, per risparmiare spazio. I piccoli bachi erano nutriti con foglie di gelso del genere morus bianco e nero, triturate, che mangiavano tre volte al giorno, per cinque giorni e poi si addormentavano. Al risveglio perdevano la pelle che era sostituita in breve tempo con altra per ben quattro volte. Quest’operazione si chiama spoglia, la penultima era denominata tritu (si svolgeva in cinque giorni circa) e l’ultima casarru (si svolgeva in quattro giorni circa). 


Fig. 5 _ Bachi di ventuno giorni 

Quando il baco non aveva più fame e rifiutava il cibo, si chiudeva nel bozzolo e iniziava a costruire la sua dimora con la bava, producendo un filo di seta della lunghezza di un chilometro, a questo punto lo si trasferiva sulla “cunocchia” formata da mazzi di ginestra essiccata e piegata a modo, e qui il baco portava a termine il suo lavoro fino a quando il bozzolo non diventava duro. In seguito, l'allevatrice e/o l'allevatrice - tessitrice cominciava l’opera di “scunucchiatura”. 


Fig. 6 _ Bozzoli

Questa fase di lavorazione consisteva nel soffocare, “stuffare”, il baco immettendolo nell'ambiente ad aria calda di 80°-90° C, immergendolo in bacinelle di acqua calda, poi si estraeva e si batteva il bozzolo con i cosiddetti manganeddi, mazze di legno, che lo ammorbidivano facendone uscire fuori il filo di seta grezzo. Se la “scunucchiatura” era di una quantità ingente di bozzoli e non serviva per uso familiare, ma per la vendita, era effettuata in filanda. Il lavoro nella filanda era svolto in genere dalle donne, talvolta da bambine, in condizioni fisiche ed ambientali molto difficili; infatti, le operaie erano costrette a lavorare per molte ore consecutive, in luoghi chiusi poco illuminati e salubri per le ceneri delle fornaci per l'ebollizione dell'acqua. Il continuo contatto delle mani con l'acqua bollente gli poteva provocare dolorose infiammazioni alle articolazioni. Certo era un lavoro faticoso quello che le donne svolgevano in filanda, ma aveva anche il suo aspetto positivo perché portava a casa un guadagno, che pur misero, gli consentiva un certo grado di emancipazione e indipendenza. Il filato di seta era greggio oppure a varie tinte dopo le lavorazioni di coloritura; e si preparavano quindi le matasse che servivano alle tessitrici per preparare i corredi e abiti per occasioni. 

Fig. 7 _ Filato di seta greggio





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05 settembre 2015

LA PRODUZIONE DI FILATO DI GINESTRA NELL'AREA GRECANICA: IL RACCONTO DELLE NONNE

Fig. 1 _ Ginestra o Spartium
Dall'etimologia: il nome deriva dal greco sparton o spartion
con il quale i Greci denominavano diverse piante a forma di giunco


La Ginestra (Spartium Junceum L.) è una pianta della famiglia delle Fabaceae, tipica degli ambienti mediterranei che sin dall'antichità fu impiegata come pianta da fibra. Era utilizzata, infatti, da Fenici, Cartaginesi, Greci e Romani per la produzione di stuoie, corde e manufatti vari. La stessa etimologia della parola greca "spartos", che significa corda ne conferma il suo impiego. 





Fig. 2 _  Strisciata fotografica
fasi di lavorazione (*)
La ginestra molto abbondante nel territorio aspromontano dell'Area Grecanica e nella vallata dell’Amendolea, si lavorava per ottenere il filato, detto appunto filato di ginestra (to nèsimo to spàrto). Secondo i racconti di nonna Elisabetta Valastro su quest'antica pratica artigianale, s’iniziava la lavorazione per produrre il filato di ginestra dopo la sfioritura nel mese di agosto, ci si recava la mattina presto, alle prime luci dell'alba, nei luoghi dove erano presenti i folti cespugli di ginestra, qui si tagliavano a uno a uno i giunchi più lunghi, grossi e meno ramificati “o spàrto”, in greco - calabro, con un'attenta selezione. Raccolti i giunchi e legati in fasci erano trasportati sulle rive della fiumara dell'Amendolea, qui erano puliti  e bolliti in grandi pentoloni di rame a fuoco lento, per circa tre ore con l’aggiunta di cenere allo scopo di ammorbidire gli steli; in epoche più moderne, negli anni Cinquanta del Novecento alcune donne usavano anche la soda caustica invece che la cenere secondo quanto ricorda nonna Elisabetta, che si rifiutò sempre di cambiare le sue tradizioni e continuava a lavorare con il metodo naturale come le era stato insegnato dalla madre. Finita la bollitura, gli steli erano fatti raffreddare e legati nuovamente in fasci per essere immersi in ammollo nell'acqua corrente della fiumara per la macerazione. 
La macerazione  era praticata con la sistemazione dei nuovi fasci sotto il peso di grossi massi, per circa otto giorni e serviva per ammorbidire completamente la fibra di ginestra e facilitare le operazioni successive di distacco di parti. Dopo otto giorni nonna Elisabetta si recava di nuovo alla fiumara sollevava i massi e recuperava i fasci ormai macerati per passare alla seguente fase di lavorazione, che consisteva nello sfilacciare gli steli lasciati a macerare per separare la fibra dall'anima interna, lo si faceva attraverso la pratica della scorciaturaciò avveniva con il cospargere gli steli macerati di sabbia fine, presa direttamente dal greto della fiumara, per poi strofinarli energicamente a mani nude, questa pratica era molto faticosa e dolorosa e determinava numerosi graffi e dei piccoli tagli nelle mani, tanto che per disinfettare e guarire in fretta si ricorreva spesso all'essenza di bergamotto. Finita la scorciatura si proseguiva con la sfibraturapraticata serrando pochi steli alla volta fra le dita e strappandoli con decisione, in modo da separare la fibra dal canapulo. La fibra ottenuta doveva essere ancora raffinata per ottenere il filato per tessere al telaio e quindi si doveva privare dalle parti legnose e dal verde della clorofilla, questo avveniva in una seconda parte della giornata dopo una breve pausa attraverso il processo di battitura, sempre praticata nel greto della fiumara. 
La battitura si eseguiva con robuste mazze di legno, che battevano sulla fibra ancora impura, costituita da fibre verdastre con rametti e impurità,  sistemata a piccoli fasci su grossi massi, con l'impiego di grande energia s'intervallano colpi a frequenti sciacqui e strizzature per purgare e sbiancare la fibra.  Finite queste fasi di lavorazione nel greto della fiumara, dopo l'asciugatura, la nonna portava le fibre ottenute a casa per la cardatura e  la filatura, sistemava la materia prima ottenuta nella cesta,  che in seguito sistemava a sua volta in testa, partiva. Arrivata a casa la riponeva per riprendere la lavorazione nei giorni seguenti. 
Le fibre lavate asciugate e portate a casa si presentavano aggrovigliate e ancora miste a scorie legnose e cuticolari, grazie a una grande pazienza, a una lavorazione manuale con l'ausilio di cardi, pettini fatti con tavolette di legno anche di forma quadrata o circolare ricoperte di cuoio con infissi decine di chiodi, si procedeva a ripulire le fibre, ammorbidendole, allungandole e selezionandole per la successiva filatura. Attraverso la cardatura delle filacce grezze si ottenevano due filati: il primo per l’ordito e il secondo per la trama; quest'ultimo costituito dalla fibra, rimasta tra i denti del cardo,  in seguito si lavorava ancora con successiva filatura per un'ulteriore raffinatura. La filatura era la fase più difficile dell’intero processo di lavorazione, e consisteva nel trasformare la fibra in filato con alcune operazioni manuali laboriose e sincronizzate. Ci si avvaleva dell’uso della rocca, uno strumento che serviva a contenere la fibra, e del fuso, che con movimento rotatorio attorcigliava le fibre su se stesse filandole all'infinito. In alcuni casi si filava con "u filacellu", dove il movimento rotatorio per la filatura era generato da un’apposita pedaliera, mentre l’alimentazione della fibra era esclusivamente manuale. 
‘U filacellu", sempre uno strumento di carattere artigianale e manuale, aiutava a velocizzare la lavorazione e a rendere più regolare il diametro del filato. Ottenuto il filato di ginestra, la nonna lo sistemava in due ceste distinte, una serviva a contenere quello grezzo e l'altra quello che doveva essere colorato. 
Secondo i racconti sia di nonna Elisabetta sia di nonna Vincenza la coloritura dei filati era effettuata con sostanze vegetali con differenti metodi di estrazione e quindi di applicazione. Gli stessi fiori della ginestra erano usati per tingere di giallo; per il colore marrone, invece, si ricorreva al decotto con il mallo della noce, oppure venivano utilizzati la melagrana e le more a seconda dei colori che si volevano ottenere. Le tinte scelte dipendevano sempre dal tipo di prodotto finale che si voleva realizzare e dallo schema del disegno decorativo che si sceglieva per il tessuto che si andava a realizzare.  


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NOTE: 

(*) A me sono arrivate solo le testimonianze orali e non fotografiche, della lavorazione della ginestra per la realizzazione del filato tessile, praticata dalle mie nonne nell'Area Grecanica in provincia di Reggio Calabria. Le immagini fotografiche dimostrative nel collage creato per le fasi di lavorazione e pubblicate in quest'articolo, sono frutto di ricerche e successivo montaggio con lavorazione grafica. L'autore delle foto è il Prof. Pasquale Filippelli di Mirto Crosia in provincia di Cosenza, la fonte iconografica la si può visionare collegandosi alla sezione WEBGRAFIA in alto, a sinistra e sotto la sezione BIBLIOGRAFIA. 

(*)
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30 agosto 2015

TO ARGALÌO ...

IL TELAIO PER LA TESSITURA 

Il telaio per la tessitura ha origini antichissime, utile per la realizzazione del tessuto ottenuto tramite l’intreccio di due serie di fili, tra loro perpendicolari, denominati trama e ordito. I primi telai compaiono nel neolitico e avevano una semplice intelaiatura rettangolare costruita con rami o pali di legno, messi in posizione verticale sui quali era posto in alto e perpendicolarmente, un terzo bastone, detto subbio. Da questo elemento partivano i fili dell’ordito la cui tensione era ottenuta tramite pesi in argilla o di pietra, che si sono ritrovati in numerosi scavi archeologici. 

Fig. 1_ Da Sx a Dx: Rappresentazione dell'uso del telaio nel neolitico
e ricostruzione di un telaio più evoluto dello stesso periodo storico.
L’evoluzione del telaio primitivo si conosce grazie ad alcune ceramiche greche di età classica, ne è uno splendido esempio lo Skyphos a figure rosse, in ceramica Attica, datato circa 440 a. C., oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Chiusi (SI). Nella scena rappresentata sono raffigurati: Telemaco e Penelope, in primo piano, e sul fondo un raffinato telaio verticale costituito da due montanti e un architrave, in cui l’ordito è tenuto in tensione con pesi ed è separato da varie barre d’incrocio. Il motivo decorativo presenta il particolare del tessuto già costruito, decorato e avvolto intorno al subbio (rullo). 

Fig. 2 _  Skyphos a figure rosse, in ceramica Attica, datato circa 440 a. C., oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Chiusi (SI). Nella decorazione: Telemaco e Penelope in primo pieno e un telaio a sistema verticale in secondo piano con tessuto già costruito. 
Un altro esempio interessante per la conoscenza del telaio e della tessitura è la ricostruzione di un telaio verticale, del tipo utilizzato dalle donne greche e quindi anche della Magna Grecia, che si conserva presso il MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI LOCRI EPIZEFIRI. La ricostruzione riproduce la decorazione che rappresenta il telaio in un vaso attico conservato a New York. I telai originali non si sono conservati fino ai giorni nostri, ma durante gli scavi archeologici sono stati ritrovati i pesi in argilla o in piombo che si usavano per farli funzionare.  


Ricostruzione di un telaio verticale, del tipo utilizzato dalle donne greche
conservato al 
MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI LOCRI EPIZEFIRI
http://www.locriantica.it/default.htm
Scriveva Omero in L’antro di Itaca: << … In capo al porto un ulivo dalla lunga chioma, vicino a lui l’antro amabile, tenebroso, sacro alle Ninfe che Naiadi si chiamano... Dentro [vi] sono crateri ed anfore di pietra, dove le api serbano il miele. Lì alti telai di pietra, sui quali le Ninfe tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi; lì ancora acque che sempre scorrono. Due sono le porte, l’una che scende verso Borea è per gli uomini, l’altra verso Noto, è per gli dèi; per di là non entrano gli uomini, ché è la via degli immortali >>


Nel Periodo Romano il telaio verticale si evolve ancora, alcuni erano alti due metri e larghi circa tre metri, e prevedeva l’uso dei licci per comandare l’avanzamento dei fili posteriori dell’ordito e permettere un più facile incrocio dei fili stessi. L’ordito era tenuto in tensione da pesi di terracotta di forma piramidale con foro passante; quest'evoluzione del telaio in un modello più raffinato è segnalata dallo stesso Seneca. La tipologia di telaio verticale si utilizzò anche nel Medioevo e nel Rinascimento per il confezionamento degli arazzi. Un altro tipo di telaio è quello a sistema orizzontale utilizzato già nel 3000 – 2500 a.C. a terra, dove la tensione dei fili dell’ordito era ottenuta grazie alla presenza di due subbi, disposti uno anteriormente e uno posteriormente. Questi telai orizzontali utilizzati per millenni dagli Egizi, furono in seguito utilizzati anche dai Greci e dai Romani, come dimostrano sia i loro rapporti con l'Egitto, sia perché essi stessi con la designazione di telaio verticale, mostrano di conoscere un altro tipo di telaio di struttura diversa. Il telaio orizzontale era più articolato di quello verticale; infatti, era costituito da un’incastellatura per tendere i fili dell’ordito che erano divaricati alternativamente dai licci (dal latino liciu[m] laccio). I lacci non sono altro che una serie di cordelle fra loro collegate che aprendosi ad anello accolgono il filo dell’ordito permettendo il movimento alterno in modo da dare passaggio alla navetta. Mentre i laccioli sono due asticciole orizzontali che sottendono e guidano le maglie del laccio. L’apertura ottenuta dal loro movimento è detta: passo o bocca, che permette al filo di trama, avvolto su un rocchetto e contenuto in un supporto affusolato, la navetta, di passare attraverso l’ordito. A ogni passaggio della trama, che è lanciata in un senso o nell'altro, i licci sono nel modo adatto alzati e abbassati secondo uno schema di divaricazione dei fili dell’ordito cui corrisponde un preciso disegno di tessuto, definito armatura. Nel XIII – XIV secolo, pur restando la struttura del telaio orizzontale in sostanza invariato con solo l'introduzione del pedale, l’evoluzione delle conoscenze tecniche della tessitura, portano alla realizzazione di liste figurative nel tessuto, lungo l’asse verticale, grazie a un programma manuale inserito lungo i fili dell’ordito chiamati liccetti.

             
Fig. 3 _ Tessitura, formella del Campanile di GiottoAndrea Pisano1334 1336, Firenze.
Rappresentazione scultoria della tessitura nel Medioevo.
Fig. 4 _ La Tessitura nel XIV sec.  
Fig. 5 _ Disegno di un Telaio orizzontale con pedale e particolari.
Nel Rinascimento la costruzione dei telai diviene più raffinata, fattore determinato dall'introduzione dell’utilizzo della seta. La struttura del telaio, invece, muta con la Rivoluzione Industriale, infatti, è ora meccanizzato prima con l’energia idraulica, poi con l’impiego di macchine a vapore, e automatizzato per aumentare la produttività; è nel 1894 che fu completamente reso meccanico, mentre si ha la perdita dell’uso della navetta nel 1950 quando un’azienda tedesca inizio a produrne i primi esemplari.


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UN USO IMPROPRIO DEI DATI  E PUBBLICATI E' PERSEGUIBILE DALLA LEGGE 22 APRILE 1941, N. 633 (PROTEZIONE DEL DIRITTO D’AUTORE E DI ALTRI DIRITTI CONNESSI AL SUO ESERCIZIO) E SUCCESSIVE MODIFICHE E INTEGRAZIONI.

LA TESSITURA IN CALABRIA

L'origine della tessitura in Calabria è fra le più antiche, lo dimostrano i numerosi contrappesi da telaio in terracotta, alcuni risalenti al VII - VI sec. a. C, che sono stati ritrovati in campagne di scavo archeologico; e tracce di arte greca, arrivate in Magna Grecia dalla penisola greca, ancora presenti nei capi realizzati dalle tessitrici calabresi, come il ricorrente motivo decorativo della greca. La tessitura calabrese appartiene alla storia di ogni famiglia come il telaio, simbolo della pazienza e dell’operosità femminile.

Fig. 1_ Grande Skyphos a figure rosse (Ca 440 a.C.)
con la rappresentazione di Penelope al telaio, 
conservato al Museo Archeologico di Chiusi (SI).

... Della donna è il silenzioso mistero del tempo e del creare, 
che nella paziente attesa tesse un'unicità irreperibile ...  

Diffusa ancora oggi su tutto il territorio regionale con peculiarità che variano da territorio a territorio e da popolo a popolo, la tessitura è la produzione artigianale che meglio rappresenta il multiculturalismo presente nella regione calabrese, tanto che per ogni provincia è possibile classificare diverse tipologie di prodotti tessili. Ad esempio nella provincia di Catanzaro, e in particolare a Badolato e Tiriolo, si ha: la lavorazione di scialli detti vancali; la produzione delle pezzare, che sono tessuti a strisce multicolori, utilizzate come tappeti o come decorazione delle pareti interne delle abitazioni; e la lavorazione di filati come la lana e la seta, tessuti in telai di tipo Quattrocentesco. 

Fig. 2 _ Da Sx a Dx: "Vancali" scialle da donna in seta
e la lavorazione al telaio dei "Pezzali".

Nella provincia di Cosenza sono realizzati tappeti e coperte con tecniche d'ispirazione araba, che si distinguono per i loro colori vivaci e luminosi e scene che richiamano il paesaggio del territorio locale. In questa provincia in comuni quali: S. Demetrio Corone, S. Benedetto Ullano, Falconara Albanese e Cerzeto alla fine del Quattrocento circa, si rifugiarono gli esuli albanesi, fuggiti dalle incursioni turche in patria; questi anche in terra calabra mantennero i loro usi e costumi, la lingua albanese e le loro arti, che per quanto concerne la tessitura nelle decorazioni trova richiami nella tradizione della patria balcanica, con forme e disegni che riproducono scene delle loro vicissitudini di essere stati sradicati dalla propria terra d'origine. Tali rappresentazioni nella tessitura sono arrivate ai giorni nostri tramite capi pregiati, conservatesi nel tempo, e attraverso l'uso di tramandare le tecniche per la realizzazione di queste decorazioni alle nuove generazioni di tessitrici. tra le decorazioni si distinguono: la lancia e lo scudo simboli delle armi dei guerrieri che combattevano contro i turchi, l'aquila, che è l’immagine di Scanderbeg, il principe che li guidò e che fu il loro capo e la barca che richiama il viaggio dall'Albania verso terre più sicure.

Fig. 3 _ Abiti tradizionali con decorazioni tipiche della cultura Arbëreshë.

Nella provincia di Crotone si realizzano, invece, coperte di lana con disegni tradizionali; mentre nella provincia di Reggio Calabria e in particolare nell'Area Grecanica la tessitura si esprime nella cosiddetta arte dei pastori, ancora oggi praticata, che produce tessuti comunemente nella forma di teli rettangolari che cuciti a tre a tre costituiscono le coperte chiamate vutane. Le decorazioni che caratterizzano i tessuti grecanici traggono le loro origini nell'arte bizantina, che si è consolidata nella società povera e non istruita solo per trasmissione orale. A Bova, Bova Marina, Condofuri, Roghudi, Roccaforte del Greco, San Lorenzo, Bagaladi e San Pantaleone si producevano coperte con filati di lana e ginestra; quest'ultima utilizzata in sostituzione di fibre più pregiate come il lino e la canapa. Oggi le vutane sono tessute con telaio ma solo con filati di ginestra, ottenuti con tecniche antichissime, da poche tessitrici che vivono a Bova, Bova Marina, Condofuri, Chorio di Roghudi e Roccaforte del Greco. Nella provincia reggina a Condofuri, Palizzi e Bivongi sul versante ionico e a Polistena sul versante tirrenico si tessevano  e si tessono tutt'oggi anche pezzare, utilizzate come tappeti e per decorare le pareti interne delle abitazioni. 

Fig. 4 _ Particolare Vutana, coperta di tessuto di ginestra.
Proprietà della famiglia Zindato - Valastro di Condofuri (RC), anno di scatto 2003.

Fig. 5 _ Particolare Pezzara di tessuto di ginestra.
Proprietà della famiglia Zindato - Valastro di Condofuri (RC), anno di scatto 2003.
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