Ancora
ricordo il fascino che lasciava in me il racconto di mia nonna paterna sulla
bachicoltura, non mi stancavo mai da bambina ad ascoltarla innumerevoli volte,
poi a un certo punto misi da parte quei ricordi per la troppa nostalgia delle
nostre passeggiate pomeridiane per i campi a fare la raccolta di erbe
spontanee, che lei m’insegnava a riconoscere per la preparazione d’infusi o di
pietanze. Un giorno poi mentre facevo ricerca per la pubblicazione tornò un
elenco che attestava la presenza di due artigiani setaioli nel feudo della
Motta San Giovanni e così ripresi gli appunti dei ricordi e ripartì la ricerca.
Fig. 1 Gelso o Morus L. Dall'etimologia: il nome generico Morus viene dal latino mōrus, parola mediterranea attestata anche nel greco μόρον móron , arbusto da more. |
Il gelso (Morus L.) è un
genere di pianta della famiglia delle Moracee, originario dell'Asia, ma anche
diffuso in Africa e in Nord America; e comprende alberi o arbusti di taglia
media. Le foglie sono caduche alterne di forma ovale o a base cordata con
margine dentato. Le principali specie presenti sul territorio europeo sono: il
Gelso Bianco (Morus
alba) e il Gelso Nero (Morus nigra). In territorio
calabrese un tempo vi erano molte piantagioni di Morus alba e Morus nigra, la
loro esistenza era legata alla pratica della bachicoltura.
La bachicoltura o sericoltura ha
origine antichissime in Cina databili circa al VII sec. a. C., in Europa e in
Italia fu introdotta dai Bizantini e Saraceni, e in Calabria? Per quanto concerne le origini
della bachicoltura in Calabria ci sono opinioni divergenti e alcune ipotesi non
sono supportate da documentazione storica, tanto da rimanere solo tali. La bachicoltura
in Calabria fu introdotta dai Bizantini lo attestano alcune fonti storiche
certe, quali: un unico documento, un rogito notarile risalente al 1050, citato
dallo storico e studioso francese Andrè Guillon, nel quale
si legge, che fra i beni della Curia Metropolitana reggina, figura un campo di
migliaia di gelsi; e la storia critica e cronologica del patrono di San Bruno e
del suo Ordine, dove un diploma del 1089 indica i confini di un podere con una
piantagione di gelsi; tale documentazione prova che l'industria serica in
Calabria fosse più antica della venuta di Ruggero II e che il primo albero
conosciuto è il Morus. Secondo altri studiosi non ci sarebbe neanche difficoltà
a pensare che anche i Saraceni introdussero la pratica della bachicoltura in
Calabria; infatti, è da pensare, che dove il loro dominio fu più duraturo,
agissero nel senso di rimanervi e quindi si dedicarono all'agricoltura e alle
attività collaterali, ma tale ipotesi non è supportata da documentazione. Con i
Normanni la produzione di
filato di seta e la tessitura serica, a cominciare da Ruggero II, iniziarono
un processo di perfezionamento che già da qualche tempo era praticato in un
ambito più ristretto e propriamente familiare; ciò è attestato da
un'affermazione del Vescovo di Frisinga e dalla successiva politica economica
adottata da Federico II di Svevia (1220 - 1250), che si adoperò a istituire
grandi fiere nei centri più importanti in un determinato periodo dell'anno. Sul
finire del XIII secolo, dopo la decadenza del setificio siciliano, avvenuta a
metà dello stesso secolo, a causa dell'emigrazione dei musulmani, il setificio
calabrese acquistò rilevanza incominciando a guadagnare i mercati italiani. Protettori
ne furono gli Angioini ma lo sviluppo della produzione di seta fu ancora
maggiore in epoca aragonese in tutta la regione. In questo periodo nella
provincia di Reggio Calabria, un grande impulso alla seta fu dato dagli Ebrei,
che avevano un ruolo importantissimo sia nella crescita economica in genere,
per le loro competenze artigiane in altri settori, sia in particolare nello
sviluppo della produzione, tintura e commercializzazione della seta, dove
investivano ingenti capitali traendone forti guadagni, tanto che divennero una
potenza economica; e ciò permise loro di possedere una condizione giuridica ed
economica influente nella vita delle comunità dei luoghi dove erano presenti.
Fig. 2 _ Immagine che ritrae una bottega medievale di stoffe di seta |
A Lione
in Francia, nel 1400 è documentata la presenza del telaio di tale mastro
setaiolo <<Giovanni
il calabrese>> che divenne il primo caposcuola e fondatore di
molte industrie seriche. L’arte della seta visse periodi di grande prosperità
durante il regno di Carlo V che aveva istituito franchigie e privilegi vari. Nel
1450 vi era in Calabria e soprattutto a Catanzaro uno sfoggio diffuso di abiti
di seta di lusso e nel 1492 erano esentate dal dazio sul commercio della seta: Tropea, Scilla, Bagnara, Fiumara di Muro e Reggio, tanto che Seminara ne
richiedeva lo stesso diritto. In questo periodo i mercanti fiorentini
esportavano seta da Squillace, Cosenza, Bagnara e Reggio; e in quest'ultimo
distretto si produceva una qualità di seta famosa per la sua lucentezza,
conosciuta con il nome si Sambatello, così detta perché era lavorata ai piedi
della salita di Sambatello, località vicino a Gallico (RC). Ben presto la
potenza acquisita dagli Ebrei nell'industria serica crollò, poiché furono
accusati dai Genovesi e dai Lucchesi di monopolizzare il mercato, e nel 1511
un’ordinanza del re Ferdinando di Aragona, li costrinse ad abbandonare il
nostro paese. Nel 1519 furono pubblicati gli Statuti dell’arte della seta
di Catanzaro ma con l'estromissione degli Ebrei e dei loro capitali molte
industrie ed attività commerciali cessarono di esistere, tanto che le fiere
persero la loro animazione e cominciò nel settore economico calabrese crisi e
decadenza, investendo soprattutto la produzione e la commercializzazione della
seta. L’attività serica, continuo comunque in piccole realtà ed ebbe
una buona ripresa negli anni seguenti con il massimo sviluppo nel Settecento,
si producevano drappi, damaschi e broccati apprezzati in tutta Europa. Nel
1790, nel reggino a Villa S. Giovanni sorse la prima filanda, e più tardi ne
sorsero altre; tanto che si registravano otto nel tratto tra Villa San Giovanni
- Reggio Calabria e nel 1863 si contavano centoventi filande distribuite lungo
la fascia Villa S. Giovanni - Roccella Ionica. Si tessevano sete damascate,
velluti in seta e cotone a vari colori. Questa ricchezza durò ben poco: nel
1879 a Reggio funzionavano appena otto telai e a Scilla quattro, finché tra la
fine del XIX e nei primi decenni del XX secolo si ebbe nel settore una lenta ma
inesorabile decadenza che portò alla scomparsa dell'industria serica, favorita
anche dalla maggiore richiesta nel mercato di stoffe di altri
tessuti come il lino, la lana e il cotone.
Fig. 3 _ Tav. 01: produzione di seta calabrese _ Pagani L., Studi sulla Calabria, Vol II |
Fig. 4 _ Tav. 02: seta calabrese _ Pagani L., Studi sulla Calabria, Vol II |
A Motta San Giovanni, nell'Area Grecanica, la mia
terra natia per parte paterna, l'industria serica fu attiva sin da epoca
bizantina e si verificarono gli avvenimenti storici fin qui descritti.
Ricordando i racconti di mia nonna paterna Vincenza Legato nel territorio
di Motta San Giovanni vi erano numerose piantagioni di gelso bianco e nero che
incrementarono l'economia dell'intero territorio con la bachicoltura fino alla prima
metà del Novecento; lei e alcune zie erano dedite all'allevamento del baco da
seta da bambine fino a giovane età. La bachicoltura a Motta si praticò fino ai
primi decenni del Novecento e i bozzoli erano raccolti in stabilimenti, dove
avveniva la prima lavorazione, per poi il prodotto essere trasferito a
Catanzaro, tra il rione Stavoli e Abenavoli, dove ancora oggi il luogo
prende il nome di "La Filanda", e
dove le antiche strutture architettoniche sono andate perdute, grazie a
demolizioni e nuove costruzioni in c.a. nella seconda metà del Novecento. L’allevamento del baco da seta e la produzione dei bozzoli avevano carattere familiare: alcune
allevatrici acquistavano le uova del baco e le tenevano al caldo aspettando che
i bacolini venissero fuori dal guscio, iniziando così la loro breve esistenza;
altre, invece, compravano direttamente i neonati di baco. L'allevamento era praticato
nelle loro case, le tipiche case terranee dell'Area Grecanica a uno o due livelli, e le stanze adibite a questo scopo erano al piano terra con
aperture supplementari sopra le porte o sotto le finestre stesse per garantire
l'areazione. I piccoli bachi erano riposti nelle cosiddette "cannizze", graticci
di canne intelaiate su cui a volte era riposta della tela e che si potevano
sovrapporre, creando più piani, per risparmiare spazio. I piccoli bachi erano
nutriti con foglie di gelso del genere morus bianco e nero, triturate,
che mangiavano tre volte al giorno, per cinque giorni e poi si
addormentavano. Al risveglio perdevano la pelle che era sostituita in breve
tempo con altra per ben quattro volte. Quest’operazione si chiama spoglia,
la penultima era denominata tritu (si
svolgeva in cinque giorni circa) e l’ultima casarru (si
svolgeva in quattro giorni circa).
Fig. 5 _ Bachi di ventuno giorni |
Quando il baco non aveva più fame
e rifiutava il cibo, si chiudeva nel bozzolo e iniziava a costruire la sua
dimora con la bava, producendo un filo di seta della lunghezza di un chilometro,
a questo punto lo si trasferiva sulla “cunocchia” formata da mazzi di ginestra
essiccata e piegata a modo, e qui il baco portava a termine il suo lavoro fino
a quando il bozzolo non diventava duro. In seguito, l'allevatrice e/o l'allevatrice - tessitrice
cominciava l’opera di “scunucchiatura”.
Fig. 6 _ Bozzoli |
Questa fase di lavorazione consisteva
nel soffocare, “stuffare”,
il baco immettendolo nell'ambiente ad aria calda di 80°-90° C, immergendolo in
bacinelle di acqua calda, poi si estraeva e si batteva il bozzolo con i
cosiddetti manganeddi,
mazze di legno, che lo ammorbidivano facendone uscire fuori il filo di seta
grezzo. Se la “scunucchiatura” era
di una quantità ingente di bozzoli e non serviva per uso familiare, ma per la
vendita, era effettuata in filanda. Il lavoro nella filanda era svolto in
genere dalle donne, talvolta da bambine, in condizioni fisiche ed ambientali molto
difficili; infatti, le operaie erano costrette a lavorare per molte ore
consecutive, in luoghi chiusi poco illuminati e salubri per le ceneri delle
fornaci per l'ebollizione dell'acqua. Il continuo contatto delle mani con
l'acqua bollente gli poteva provocare dolorose infiammazioni alle
articolazioni. Certo era un lavoro faticoso quello che le donne svolgevano in
filanda, ma aveva anche il suo aspetto positivo perché portava a casa
un guadagno, che pur misero, gli consentiva un certo grado di
emancipazione e indipendenza. Il filato di seta era greggio oppure a varie
tinte dopo le lavorazioni di coloritura; e si preparavano quindi le matasse che
servivano alle tessitrici per preparare i corredi e abiti per
occasioni.
Fig. 7 _ Filato di seta greggio |
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