06 settembre 2015

LA PRODUZIONE DI FILATO DI SETA A MOTTA SAN GIOVANNI ENELL'AREA GRECANICA: LA RICERCA E I RACCONTI DI NONNA VINCENZA LEGATO

Ancora ricordo il fascino che lasciava in me il racconto di mia nonna paterna sulla bachicoltura, non mi stancavo mai da bambina ad ascoltarla innumerevoli volte, poi a un certo punto misi da parte quei ricordi per la troppa nostalgia delle nostre passeggiate pomeridiane per i campi a fare la raccolta di erbe spontanee, che lei m’insegnava a riconoscere per la preparazione d’infusi o di pietanze. Un giorno poi mentre facevo ricerca per la pubblicazione tornò un elenco che attestava la presenza di due artigiani setaioli nel feudo della Motta San Giovanni e così ripresi gli appunti dei ricordi e ripartì la ricerca. 

Fig. 1  Gelso o Morus L.
Dall'etimologia: il nome generico Morus viene dal latino mōrus
parola mediterranea attestata anche nel greco μόρον móron , arbusto da more. 


Il gelso (Morus L.) è un genere di pianta della famiglia delle Moracee, originario dell'Asia, ma anche diffuso in Africa e in Nord America; e comprende alberi o arbusti di taglia media. Le foglie sono caduche alterne di forma ovale o a base cordata con margine dentato. Le principali specie presenti sul territorio europeo sono: il Gelso Bianco (Morus alba) e il Gelso Nero (Morus nigra). In territorio calabrese un tempo vi erano molte piantagioni di Morus alba e Morus nigra, la loro esistenza era legata alla pratica della bachicoltura.

La bachicoltura o sericoltura ha origine antichissime in Cina databili circa al VII sec. a. C., in Europa e in Italia fu introdotta dai Bizantini e Saraceni, e in Calabria? Per quanto concerne le origini della bachicoltura in Calabria ci sono opinioni divergenti e alcune ipotesi non sono supportate da documentazione storica, tanto da rimanere solo tali. La bachicoltura in Calabria fu introdotta dai Bizantini lo attestano alcune fonti storiche certe, quali: un unico documento, un rogito notarile risalente al 1050, citato dallo storico e studioso francese Andrè Guillon, nel quale si legge, che fra i beni della Curia Metropolitana reggina, figura un campo di migliaia di gelsi; e la storia critica e cronologica del patrono di San Bruno e del suo Ordine, dove un diploma del 1089 indica i confini di un podere con una piantagione di gelsi; tale documentazione prova che l'industria serica in Calabria fosse più antica della venuta di Ruggero II e che il primo albero conosciuto è il Morus. Secondo altri studiosi non ci sarebbe neanche difficoltà a pensare che anche i Saraceni introdussero la pratica della bachicoltura in Calabria; infatti, è da pensare, che dove il loro dominio fu più duraturo, agissero nel senso di rimanervi e quindi si dedicarono all'agricoltura e alle attività collaterali, ma tale ipotesi non è supportata da documentazione. Con i Normanni la produzione di filato di seta e la tessitura serica, a cominciare da Ruggero II, iniziarono un processo di perfezionamento che già da qualche tempo era praticato in un ambito più ristretto e propriamente familiare; ciò è attestato da un'affermazione del Vescovo di Frisinga e dalla successiva politica economica adottata da Federico II di Svevia (1220 - 1250), che si adoperò a istituire grandi fiere nei centri più importanti in un determinato periodo dell'anno. Sul finire del XIII secolo, dopo la decadenza del setificio siciliano, avvenuta a metà dello stesso secolo, a causa dell'emigrazione dei musulmani, il setificio calabrese acquistò rilevanza incominciando a guadagnare i mercati italiani. Protettori ne furono gli Angioini ma lo sviluppo della produzione di seta fu ancora maggiore in epoca aragonese in tutta la regione. In questo periodo nella provincia di Reggio Calabria, un grande impulso alla seta fu dato dagli Ebrei, che avevano un ruolo importantissimo sia nella crescita economica in genere, per le loro competenze artigiane in altri settori, sia in particolare nello sviluppo della produzione, tintura e commercializzazione della seta, dove investivano ingenti capitali traendone forti guadagni, tanto che divennero una potenza economica; e ciò permise loro di possedere una condizione giuridica ed economica influente nella vita delle comunità dei luoghi dove erano presenti. 


Fig. 2 _ Immagine che ritrae una bottega medievale di stoffe di seta 


A Lione in Francia, nel 1400 è documentata la presenza del telaio di tale mastro setaiolo <<Giovanni il calabrese>> che divenne il primo caposcuola e fondatore di molte industrie seriche. L’arte della seta visse periodi di grande prosperità durante il regno di Carlo V che aveva istituito franchigie e privilegi vari. Nel 1450 vi era in Calabria e soprattutto a Catanzaro uno sfoggio diffuso di abiti di seta di lusso e nel 1492 erano esentate dal dazio sul commercio della seta: Tropea, Scilla, Bagnara, Fiumara di Muro e Reggio, tanto che Seminara ne richiedeva lo stesso diritto. In questo periodo i mercanti fiorentini esportavano seta da Squillace, Cosenza, Bagnara e Reggio; e in quest'ultimo distretto si produceva una qualità di seta famosa per la sua lucentezza, conosciuta con il nome si Sambatello, così detta perché era lavorata ai piedi della salita di Sambatello, località vicino a Gallico (RC). Ben presto la potenza acquisita dagli Ebrei nell'industria serica crollò, poiché furono accusati dai Genovesi e dai Lucchesi di monopolizzare il mercato, e nel 1511 un’ordinanza del re Ferdinando di Aragona, li costrinse ad abbandonare il nostro paese. Nel 1519 furono pubblicati gli Statuti dell’arte della seta di Catanzaro ma con l'estromissione degli Ebrei e dei loro capitali molte industrie ed attività commerciali cessarono di esistere, tanto che le fiere persero la loro animazione e cominciò nel settore economico calabrese crisi e decadenza, investendo soprattutto la produzione e la commercializzazione della seta. L’attività serica, continuo comunque in piccole realtà ed ebbe una buona ripresa negli anni seguenti con il massimo sviluppo nel Settecento, si producevano drappi, damaschi e broccati apprezzati in tutta Europa. Nel 1790, nel reggino a Villa S. Giovanni sorse la prima filanda, e più tardi ne sorsero altre; tanto che si registravano otto nel tratto tra Villa San Giovanni - Reggio Calabria e nel 1863 si contavano centoventi filande distribuite lungo la fascia Villa S. Giovanni - Roccella Ionica. Si tessevano sete damascate, velluti in seta e cotone a vari colori. Questa ricchezza durò ben poco: nel 1879 a Reggio funzionavano appena otto telai e a Scilla quattro, finché tra la fine del XIX e nei primi decenni del XX secolo si ebbe nel settore una lenta ma inesorabile decadenza che portò alla scomparsa dell'industria serica, favorita anche dalla maggiore richiesta nel mercato di stoffe di altri tessuti come il lino, la lana e il cotone. 


 Fig. 3 _ Tav. 01: produzione di seta calabrese _
Pagani L., Studi sulla Calabria, Vol II
 


Fig. 4 _ Tav. 02: seta calabrese _
Pagani L., 
Studi sulla Calabria, Vol II 


A Motta San Giovanni, nell'Area Grecanica, la mia terra natia per parte paterna, l'industria serica fu attiva sin da epoca bizantina e si verificarono gli avvenimenti storici fin qui descritti. Ricordando i racconti di mia nonna paterna Vincenza Legato nel territorio di Motta San Giovanni vi erano numerose piantagioni di gelso bianco e nero che incrementarono l'economia dell'intero territorio con la bachicoltura fino alla prima metà del Novecento; lei e alcune zie erano dedite all'allevamento del baco da seta da bambine fino a giovane età. La bachicoltura a Motta si praticò fino ai primi decenni del Novecento e i bozzoli erano raccolti in stabilimenti, dove avveniva la prima lavorazione, per poi il prodotto essere trasferito a Catanzaro, tra il rione Stavoli e Abenavoli, dove ancora oggi il luogo prende il nome di "La Filanda", e dove le antiche strutture architettoniche sono andate perdute, grazie a demolizioni e nuove costruzioni in c.a. nella seconda metà del Novecento. L’allevamento del baco da seta e la produzione dei bozzoli avevano carattere familiare: alcune allevatrici acquistavano le uova del baco e le tenevano al caldo aspettando che i bacolini venissero fuori dal guscio, iniziando così la loro breve esistenza; altre, invece, compravano direttamente i neonati di baco. L'allevamento era praticato nelle loro case, le tipiche case terranee dell'Area Grecanica a uno o due livelli, e le stanze adibite a questo scopo erano al piano terra con aperture supplementari sopra le porte o sotto le finestre stesse per garantire l'areazione. I piccoli bachi erano riposti nelle cosiddette "cannizze", graticci di canne intelaiate su cui a volte era riposta della tela e che si potevano sovrapporre, creando più piani, per risparmiare spazio. I piccoli bachi erano nutriti con foglie di gelso del genere morus bianco e nero, triturate, che mangiavano tre volte al giorno, per cinque giorni e poi si addormentavano. Al risveglio perdevano la pelle che era sostituita in breve tempo con altra per ben quattro volte. Quest’operazione si chiama spoglia, la penultima era denominata tritu (si svolgeva in cinque giorni circa) e l’ultima casarru (si svolgeva in quattro giorni circa). 


Fig. 5 _ Bachi di ventuno giorni 

Quando il baco non aveva più fame e rifiutava il cibo, si chiudeva nel bozzolo e iniziava a costruire la sua dimora con la bava, producendo un filo di seta della lunghezza di un chilometro, a questo punto lo si trasferiva sulla “cunocchia” formata da mazzi di ginestra essiccata e piegata a modo, e qui il baco portava a termine il suo lavoro fino a quando il bozzolo non diventava duro. In seguito, l'allevatrice e/o l'allevatrice - tessitrice cominciava l’opera di “scunucchiatura”. 


Fig. 6 _ Bozzoli

Questa fase di lavorazione consisteva nel soffocare, “stuffare”, il baco immettendolo nell'ambiente ad aria calda di 80°-90° C, immergendolo in bacinelle di acqua calda, poi si estraeva e si batteva il bozzolo con i cosiddetti manganeddi, mazze di legno, che lo ammorbidivano facendone uscire fuori il filo di seta grezzo. Se la “scunucchiatura” era di una quantità ingente di bozzoli e non serviva per uso familiare, ma per la vendita, era effettuata in filanda. Il lavoro nella filanda era svolto in genere dalle donne, talvolta da bambine, in condizioni fisiche ed ambientali molto difficili; infatti, le operaie erano costrette a lavorare per molte ore consecutive, in luoghi chiusi poco illuminati e salubri per le ceneri delle fornaci per l'ebollizione dell'acqua. Il continuo contatto delle mani con l'acqua bollente gli poteva provocare dolorose infiammazioni alle articolazioni. Certo era un lavoro faticoso quello che le donne svolgevano in filanda, ma aveva anche il suo aspetto positivo perché portava a casa un guadagno, che pur misero, gli consentiva un certo grado di emancipazione e indipendenza. Il filato di seta era greggio oppure a varie tinte dopo le lavorazioni di coloritura; e si preparavano quindi le matasse che servivano alle tessitrici per preparare i corredi e abiti per occasioni. 

Fig. 7 _ Filato di seta greggio





(*)
Tutti i diritti sono riservati. nessuna parte di questo blog, che siano immagini o testi di ricerca studio e pubblicazioni, può essere riprodotta, utilizzata o trasmessa in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo tecnologico senza previa autorizzazione secondo le normative vigenti dell'autrice.
UN USO IMPROPRIO DEI DATI  E PUBBLICATI E' PERSEGUIBILE DALLA LEGGE 22 APRILE 1941, N. 633 (PROTEZIONE DEL DIRITTO D’AUTORE E DI ALTRI DIRITTI CONNESSI AL SUO ESERCIZIO) E SUCCESSIVE MODIFICHE E INTEGRAZIONI.

05 settembre 2015

LA PRODUZIONE DI FILATO DI GINESTRA NELL'AREA GRECANICA: IL RACCONTO DELLE NONNE

Fig. 1 _ Ginestra o Spartium
Dall'etimologia: il nome deriva dal greco sparton o spartion
con il quale i Greci denominavano diverse piante a forma di giunco


La Ginestra (Spartium Junceum L.) è una pianta della famiglia delle Fabaceae, tipica degli ambienti mediterranei che sin dall'antichità fu impiegata come pianta da fibra. Era utilizzata, infatti, da Fenici, Cartaginesi, Greci e Romani per la produzione di stuoie, corde e manufatti vari. La stessa etimologia della parola greca "spartos", che significa corda ne conferma il suo impiego. 





Fig. 2 _  Strisciata fotografica
fasi di lavorazione (*)
La ginestra molto abbondante nel territorio aspromontano dell'Area Grecanica e nella vallata dell’Amendolea, si lavorava per ottenere il filato, detto appunto filato di ginestra (to nèsimo to spàrto). Secondo i racconti di nonna Elisabetta Valastro su quest'antica pratica artigianale, s’iniziava la lavorazione per produrre il filato di ginestra dopo la sfioritura nel mese di agosto, ci si recava la mattina presto, alle prime luci dell'alba, nei luoghi dove erano presenti i folti cespugli di ginestra, qui si tagliavano a uno a uno i giunchi più lunghi, grossi e meno ramificati “o spàrto”, in greco - calabro, con un'attenta selezione. Raccolti i giunchi e legati in fasci erano trasportati sulle rive della fiumara dell'Amendolea, qui erano puliti  e bolliti in grandi pentoloni di rame a fuoco lento, per circa tre ore con l’aggiunta di cenere allo scopo di ammorbidire gli steli; in epoche più moderne, negli anni Cinquanta del Novecento alcune donne usavano anche la soda caustica invece che la cenere secondo quanto ricorda nonna Elisabetta, che si rifiutò sempre di cambiare le sue tradizioni e continuava a lavorare con il metodo naturale come le era stato insegnato dalla madre. Finita la bollitura, gli steli erano fatti raffreddare e legati nuovamente in fasci per essere immersi in ammollo nell'acqua corrente della fiumara per la macerazione. 
La macerazione  era praticata con la sistemazione dei nuovi fasci sotto il peso di grossi massi, per circa otto giorni e serviva per ammorbidire completamente la fibra di ginestra e facilitare le operazioni successive di distacco di parti. Dopo otto giorni nonna Elisabetta si recava di nuovo alla fiumara sollevava i massi e recuperava i fasci ormai macerati per passare alla seguente fase di lavorazione, che consisteva nello sfilacciare gli steli lasciati a macerare per separare la fibra dall'anima interna, lo si faceva attraverso la pratica della scorciaturaciò avveniva con il cospargere gli steli macerati di sabbia fine, presa direttamente dal greto della fiumara, per poi strofinarli energicamente a mani nude, questa pratica era molto faticosa e dolorosa e determinava numerosi graffi e dei piccoli tagli nelle mani, tanto che per disinfettare e guarire in fretta si ricorreva spesso all'essenza di bergamotto. Finita la scorciatura si proseguiva con la sfibraturapraticata serrando pochi steli alla volta fra le dita e strappandoli con decisione, in modo da separare la fibra dal canapulo. La fibra ottenuta doveva essere ancora raffinata per ottenere il filato per tessere al telaio e quindi si doveva privare dalle parti legnose e dal verde della clorofilla, questo avveniva in una seconda parte della giornata dopo una breve pausa attraverso il processo di battitura, sempre praticata nel greto della fiumara. 
La battitura si eseguiva con robuste mazze di legno, che battevano sulla fibra ancora impura, costituita da fibre verdastre con rametti e impurità,  sistemata a piccoli fasci su grossi massi, con l'impiego di grande energia s'intervallano colpi a frequenti sciacqui e strizzature per purgare e sbiancare la fibra.  Finite queste fasi di lavorazione nel greto della fiumara, dopo l'asciugatura, la nonna portava le fibre ottenute a casa per la cardatura e  la filatura, sistemava la materia prima ottenuta nella cesta,  che in seguito sistemava a sua volta in testa, partiva. Arrivata a casa la riponeva per riprendere la lavorazione nei giorni seguenti. 
Le fibre lavate asciugate e portate a casa si presentavano aggrovigliate e ancora miste a scorie legnose e cuticolari, grazie a una grande pazienza, a una lavorazione manuale con l'ausilio di cardi, pettini fatti con tavolette di legno anche di forma quadrata o circolare ricoperte di cuoio con infissi decine di chiodi, si procedeva a ripulire le fibre, ammorbidendole, allungandole e selezionandole per la successiva filatura. Attraverso la cardatura delle filacce grezze si ottenevano due filati: il primo per l’ordito e il secondo per la trama; quest'ultimo costituito dalla fibra, rimasta tra i denti del cardo,  in seguito si lavorava ancora con successiva filatura per un'ulteriore raffinatura. La filatura era la fase più difficile dell’intero processo di lavorazione, e consisteva nel trasformare la fibra in filato con alcune operazioni manuali laboriose e sincronizzate. Ci si avvaleva dell’uso della rocca, uno strumento che serviva a contenere la fibra, e del fuso, che con movimento rotatorio attorcigliava le fibre su se stesse filandole all'infinito. In alcuni casi si filava con "u filacellu", dove il movimento rotatorio per la filatura era generato da un’apposita pedaliera, mentre l’alimentazione della fibra era esclusivamente manuale. 
‘U filacellu", sempre uno strumento di carattere artigianale e manuale, aiutava a velocizzare la lavorazione e a rendere più regolare il diametro del filato. Ottenuto il filato di ginestra, la nonna lo sistemava in due ceste distinte, una serviva a contenere quello grezzo e l'altra quello che doveva essere colorato. 
Secondo i racconti sia di nonna Elisabetta sia di nonna Vincenza la coloritura dei filati era effettuata con sostanze vegetali con differenti metodi di estrazione e quindi di applicazione. Gli stessi fiori della ginestra erano usati per tingere di giallo; per il colore marrone, invece, si ricorreva al decotto con il mallo della noce, oppure venivano utilizzati la melagrana e le more a seconda dei colori che si volevano ottenere. Le tinte scelte dipendevano sempre dal tipo di prodotto finale che si voleva realizzare e dallo schema del disegno decorativo che si sceglieva per il tessuto che si andava a realizzare.  


_______________________________

NOTE: 

(*) A me sono arrivate solo le testimonianze orali e non fotografiche, della lavorazione della ginestra per la realizzazione del filato tessile, praticata dalle mie nonne nell'Area Grecanica in provincia di Reggio Calabria. Le immagini fotografiche dimostrative nel collage creato per le fasi di lavorazione e pubblicate in quest'articolo, sono frutto di ricerche e successivo montaggio con lavorazione grafica. L'autore delle foto è il Prof. Pasquale Filippelli di Mirto Crosia in provincia di Cosenza, la fonte iconografica la si può visionare collegandosi alla sezione WEBGRAFIA in alto, a sinistra e sotto la sezione BIBLIOGRAFIA. 

(*)
Tutti i diritti sono riservati. nessuna parte di questo blog, che siano immagini o testi di ricerca studio e pubblicazioni, può essere riprodotta, utilizzata o trasmessa in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo tecnologico senza previa autorizzazione secondo le normative vigenti dell'autrice.
UN USO IMPROPRIO DEI DATI  E PUBBLICATI E' PERSEGUIBILE DALLA LEGGE 22 APRILE 1941, N. 633 (PROTEZIONE DEL DIRITTO D’AUTORE E DI ALTRI DIRITTI CONNESSI AL SUO ESERCIZIO) E SUCCESSIVE MODIFICHE E INTEGRAZIONI.